Don Guanella era così entrato nel pieno della sua missione. L’impressione che diede a molti è così riassunta da p. Luigi Santini, il consultore incaricato di studiare I’opera in vista dell’approvazione della Santa Sede: «Dal tutto insieme si scorge che il sac. Guanella è un uomo di gran zelo e animato da un desiderio direi quasi sfrenato, di giovare al prossimo infelice e derelitto in tutti i modi. Nell’ardore della sua grande carità egli si getta a tutto ed abbraccia tutta l’immensa falange delle miserie umane, dovunque spargendo i benefici influssi della carità cristiana e moltiplicandosi, per così dire, i membri dei due Istituti (i quali sono tuttavia scarsi di numero) per il vantaggio spirituale e anche corporale di tutte le classi bisognose di soccorso. II sac. Luigi Guanella è meritevole di ogni elogio per il suo spirito e per lo zelo da lui spiegato nel promuovere tante opere a sollievo dell’umanità sofferente e diseredata; ma non credo che si possa parlare di approvazione» (1900). E spiegava un giornale, La Sera, alla sua morte: «I suoi ospizi funzionano senza burocrazia. Sono veramente asili. Non chiedono a chi entra che d’aver sofferto».

Egli ne era anche consapevole e tentava di mettere ordine: «Per tre volte [a Como] si costrussero locali ad uso rustico e di stalla e per tre volte riuscirono aggiunte di case necessarie pel ricovero di vecchi, di scemi, di cronici, di artigianelli orfani, di derelitti, di chierici studenti, di sacerdoti invalidi». Era il buon samaritano impegnato a fermarsi per raccogliere qualsiasi malcapitato che incontrasse lungo la strada e a curarsene, facendosene carico personalmente.

Si poneva allora il dilemma: ‘poco e bene’ oppure ‘tanto anche se abborracciato’? Era un dubbio anche logico, ma più da persona seduta al tavolo a pensare i metodi di assistenza; ma non alternativa seria per chi tutti i giorni si trovava davanti a forme vecchie e nuove di miserie, di indigenze e abbandono, di bisogno estremo.

Dovendosi pure spiegare, scrive nel 1900: «La Casa ha costume, finché le sue forze lo comportano, di provvedere immediatamente ai bisogni urgenti. Pur troppo è cosa che fa rabbrividire il ricordare anche solo taluno dei molteplici casi in cui l’infanzia, esposta a sevizie d’anima o di corpo, reclama non solo dalla carità cristiana, ma dallo spirito di semplice umanità, di esser tolta senza indugio dal suo abbrutimento, forse dalla sua casa, per esser salvata, ricoverata e nutrita. Si dà vitto, alloggio, educazione ed istruzione proporzionata alla condizione dei ricoverati. D’altronde la Casa nostra intende allargare quanto più può le braccia per accogliere un maggior numero di poveri». così per gli anziani, gli ammalati, gli handicappati.

 E allora si discuteva, mentre lui operava, sulla sua ‘arca di Noè’, il disordine, l’irrazionalità; naturalmente alla fase convulsa delle origini, seguiva poi la fase dell’assestamento; ma poiché la fame e la miseria non danno tregua, egli inclinò sempre per il tanto, anche se un po’ alla buona.

Nel suo interno lo sorreggeva una grazia forte e stimolante al di là di ogni difficoltà o costo. Aveva scritto al suo Vescovo: «Sento che la vita prosastica presente poco mi soddisfa in atto, che meno mi contenterebbe in morte. Sento in me uno spirito d’azione che io ben non so delineare, ma che mi assicura di buon esito anche in mezzo ai maggiori sconvolgimenti dei tempi, quando io a mezzo del superiore senta d’esser guidato da Dio. Con la guida dell’Alto mi pare di aver molta forza; senza questa, io non mi sento di muover passo. Parmi confidare più che tutto nella Provvidenza del Signore». Appoggiato a questa forza interiore, che riteneva grazia di Dio, come sperava che anche il Vescovo potesse verificare, si mise tutto a disposizione dell’uomo più abbandonato. II progresso, come lo vedeva lui, più che creare macchine o solo benessere materiale, doveva migliorare le persone, senza lasciar indietro nessuno. Lo aveva intuito nella sua fantasia infantile; da adulto si rese conto di dover fare qualcosa, il più possibile, per garantire una dignità di vita, di casa, di trattamento, di amicizia per aiutare i ritardati sulla strada del progresso umano a rientrare nella società con sufficiente preparazione e dignità personale: e questo per tutti, anche per coloro che spesso erano dati come irrimediabilmente perduti.

Lo sosteneva una forza di carattere già messa in rilievo: «Timidezze e vie oblique non le conobbi mai!». «Dolce senza deboli accondiscendenze, forte senza bruschezze e indefesso nel lavoro». Anche autoritario, ma dipendente fino al sacrificio; scriveva in un momento di massima crisi: «Non mi trovo pentito di aver obbedito al Vescovo e intendo obbedirgli fino alla fine». Era deciso, volitivo, pratico, ma anche paziente. Aveva pluralità di interessi: l’arte, la natura, le scienze e le tecniche, ma soprattutto per lui contava l’uomo: i rapporti interpersonali, l’amicizia, la dedizione, il servizio. Se personalmente era austero e rigido, ardente e fatto per rompere gli indugi e dissipare le difficoltà, sapeva esser paziente e benevolo, accondiscendente verso chi capiva avere un’andatura più lenta della sua; non solitario, ma reso convinto dalle sue origini montanare del bene della solidarietà; era amico cordiale e lieto, anche allegro, aperto a ogni persona e persuaso che anche l’uomo più grezzo o difficile nasconda tesori preziosi e bellezze da valorizzare.

I tentativi fatti di inquadrarlo in una mentalità socialmente vetero-agraria e conservatrice, antindustriale e di catalogarlo politicamente fra i cattolici intransigenti non hanno trovato fondamento solido: non era né antiunitario, né rifiutava il paese legale; non era isolato, né ai margini della vita politica e civile, paternalista e conservatore. Se chiedeva giornali, scuole, istituzioni sociali cattoliche era solo perché trovava troppo spesso nelle autorità della sua regione un rozzo anticristianesimo, più ancora che dell’anticlericalismo.

Fu in realtà un pastore, specialmente dei poveri, dipendente dai suoi superiori e questo fu anche il suo cruccio profondo: concordare la grazia e il carisma interiore con l’obbedienza e la coerenza agli impegni assunti; la fede con la ragione e la prudenza. Per alcuni era santo, per altri un matto. Intensamente immerso nel suo presente e profeticamente avanti verso il futuro.

La sua scoperta interiore fu la salda convinzione della paternità di Dio; il grande principio della teologia cristiana fu per lui una rivelazione personale e un’esperienza di vita: un Padre buono che ama e che vuole salvare ogni uomo da ogni miseria morale, fisica e materiale. Anzi all’uomo è concesso di partecipare a questa paternità come trasmissione di amore, di vita, di salvezza: padre e fratello di tutti, come Gesù Cristo, immagine del Padre fra noi e primo dei fratelli.

Assunse quindi come sua insegna una croce col cuore e il motto agostiniano: In omnibus caritas: l’amore come donazione di vita. La sua vita ha quindi uno stile proprio: egli si sa collegare a Dio come padre, con una intensa motivazione di fede contemplativa; si intende con Dio colloquiando in lunghe udienze e ore di preghiera, o inviando un sorriso frequente di breve invocazione e tutta la vita è un fiducioso abbandono alla provvidenza del Padre: «Ama e sii beato!».

Ma poi è urgente rivolgersi subito ai fratelli, muovendosi con la stessa vivacità di amore. La pietà verso Dio non dev’essere un mantello per contrabbandare inerzia o egoismo; occorre diffondere questo amore del Padre, ricostruire con l’uomo una famiglia cordiale, dove a nessuno incolga male di sorta e ognuno, nel cammino della vita, approdi a meta felice. Ma, avverte, senza illusioni: occorre saper gustare la bellezza della donazione, del sacrificio che genera vita; con un realismo concreto afferma la legge del patire; ogni opera, ogni Casa nasce tra le difficoltà e i contrasti: «fame, fumo, freddo, fastidi». Nella pratica questo diventava, per i suoi preti e le sue suore, un impegno a darsi direttamente e personalmente, lavorando di mano propria, con cordialità e semplicità; soprattutto in grande povertà. Egli l’aveva prima vissuta personalmente, comprendendo come questa debba esser realmente condivisa col povero, per percorrere assieme un cammino di progresso. In questa famiglia i fratelli, i poveri, entrano con la speranza di ricostruirsi una vita, ma senza falsi salti in avanti o cambi gratuiti di condizioni o di stato; sono poveri a cui è offerta la possibilità di mezzi adatti per recuperare i ritardi sociali, economici, culturali e anche psichici; entrano come in un’azienda fondata sul lavoro personale e sulla solidarietà di molti amici; apprendono come si costruisce una vita e ci si provano, se sono giovani. Se sono anziani, ritrovano la gioia di stare fra amici che sanno preoccuparsi ancora di loro, di sentirsi ancora al centro di interessi personali e di affetti, di dimenticare un poco l’amarezza verso una società che tentava di scaricarli come naufraghi, di riprovare forse ancora la sensazione di essere utili a qualche cosa e di morire con una speranza.