Alla fine di maggio entrava nel ministero, come aiuto dell’arciprete di Prosto, poco fuori di Chiavenna, tra le feste del popolo e la cordiale accoglienza del parroco Del Curto. La sua porzione di ministero era specialmente il settore dei ragazzi, degli ammalati e dei poveri che seguiva con pietoso affetto; d’inverno la scuola popolare per giovani e per adulti. Cominciarono anche i primi viaggi a Torino presso Don Bosco e l’opera del Cottolengo, per raccomandarvi studenti poveri o ammalati bisognosi. «Ma era irrequieto e non vedeva che lavoro sopra lavoro e questo non concordava affatto col carattere serio e pacato del sig. Arciprete».

L’anno seguente (giugno 1867), mise su casa e attività in proprio, come parroco di Savogno, sopra le vigne e i castagneti della sponda destra della valle del Mera: 380 anime a 930 m. sul mare, senza carrozzabile naturalmente. All’arciprete che lo aveva invitato a Prosto per le prime esperienze aveva risposto: «Eccomi, servo fedele»; al parrocchiano di Savogno che l’aveva richiesto per un battesimo, senza che lui sapesse ancora di esserne parroco, rispose pure: «Servo fedele».

Pensò il suo ministero come un servizio da compiere con piena dedizione e fedeltà, non dimenticando nessun aspetto della vita della popolazione povera e incolta: ricco della povertà massima dei suoi, ma indomito nei suoi progetti e confidente nell’aiuto della divina Provvidenza, con il sistema «corri, corri», fu muratore per sistemare la chiesa, ampliandola e aggiungendo un piazzale, per sistemare la casa parrocchiale con aule scolastiche, costruire il nuovo cimitero, coprire il lavatoio. Fu maestro di scuola per vari anni, con varie questioni e dissensi con l’autorità provinciale che giudicava incompatibili gli uffici di pastore e di maestro di scuola per bambini e serale per gli adulti. Fu assistente sociale per i casi di bisogno: deficienti o anziani aiutati a sistemarsi, portandone alcuni anche a Torino. Sostenne don Callisto Grandi a Chiavenna nella fondazione di una delle prime Casse cattoliche di mutuo soccorso.

Soprattutto fu parroco nel culto, nei sacramenti, nell’insegnamento e nella formazione religiosa; portava una certa austerità esigente curando vocazioni, specialmente di suore: un anno condusse in una sola volta sette postulanti a Torino; ancora l’ultimo anno, agli inizi del 1875, quattro giovani partirono come aspiranti salesiane, raggiungendo lui già presso don Bosco.

Ma il suo zelo e i suoi metodi piuttosto decisi cominciarono a irritare qualcuno; poi si mosse decisamente per difendere certi diritti di suoi parrocchiani: per la legge dell’incameramento dei beni, «parecchie famiglie di Savogno e la chiesa stessa sarebbero stati rovinati. II curato maneggiò certi documenti e ottenne dal Ministero la restituzione dei beni venduti. L’agente delle tasse fu trasferito per abusi scoperti». C’era anche qualche intervento che stupiva anche i suoi; esempio tipico fu l’intervento per il cimitero. Bisognava preparare una buona quantità di massi, da far scendere dall’alto con grande fatica e lavoro: la sera del 20 gennaio tornava da Villa di Chiavenna, dalla festa di S. Sebastiano, quando cominciò a nevicare. «Tosto si affrettò a Savogno e dato mano alla campana tiro giù e fino a mezzanotte si lavorò per disporre la via [una pista sulla neve] per condurre i sassi. I parrocchiani furono trasognati...». Anche dalla Prefettura arrivò un richiamo per il movimento di certi piottini cavati per il tetto della chiesa, da un luogo piuttosto pericoloso.

Il peggio fu quando si mise a scrivere un libretto che sembrào un intervento politico reazionario ed eversivo: sembrò sfiorare la ribellione e incappare nei rigori della legge, che in provincia di Sondrio dai politici era interpretata anche più strettamente. II Saggio di ammonimenti famigliari, pubblicato fra le «Letture Cattoliche» di don Bosco nel 1872, non era più polemico di tanti altri scritti tipici di quel tempo: vi parlava male di Garibaldi, attaccava i governanti locali come anticristiani, massoni, liberali; difendeva con forza le scelte e i principi della sua azione pastorale: una scuola formativa e aperta alla cultura di carattere locale, un cimitero degno, la creazione di istituzioni cattoliche (il libro era dedicato agli iscritti alla Società di Mutuo Soccorso, aperta in contrapposizione di quella laica e aggressiva istituita da tempo in Chiavenna); elencava i danni dell’emigrazione; proponeva la fondazione di giornali cattolici; denunciava soprattutto i danni dovuti a governanti inetti, almeno quelli locali. Fino a proporre: «Noi domanderemo adunque che dal nostro paese siano in eterno banditi i maestri sedicenti, i seminatori di zizzania, i falsi cattolici, e saremo ascoltati... Domanderemo noi che dai seggi dei governi siano sbalzati giù nel fango, quei vili traditori, che da padri si sono convertiti in crudelissimi carnefici dei corpi e dell’anime nostre, e l’otterremo». Sembrava una dichiarazione di guerra; ma tutto si chiudeva con un invito a pregare per questi avversari. Si intravide il rischio d’un intervento diretto nella politica da parte del clero? Qualcuno si sentì personalmente chiamato in causa? E poi il libro era dedicato al nuovo vescovo di Como, mons. Carsana, che doveva far l’ingresso in diocesi, ma non ottenne l’autorizzazione regia richiesta: tra il clero qualcuno disse che fu tutta colpa di quella dedica e di quel libro. Sorsero contrasti, qualche amico gli consigliò di farsi uccel di bosco nella vicina Svizzera. Ma don Guanella aveva ben altro per la testa e non era di carattere molto arrendevole davanti a torti ingiusti; quando era convinto andava avanti fino in fondo: «Le vie oblique e le timidità non le conobbi mai!».

Ma ormai gli pareva di essere un po’ come il tarlo che corrodeva i castani dei boschi di Savogno: forse la sua missione lì era finita e, poiché l’avevano allegramente beffato in un concorso ad una nuova parrocchia, chiese al Vescovo di andare qualche tempo da don Bosco, per una esperienza e per certe sue idee. «Fu un rincrescimento come alla morte di persone carissime», ma si sapeva che don Guanella non si sarebbe ripiegato. «Sento in me che la Divina Provvidenza mi chiama a Torino e sarà quel che Dio vuole». Popolazione e confratelli ci capirono poco, ne furono addolorati. «Che fare? Al solito don Guanella si consigliava con Dio nella coscienza propria e addio tutti con semplicità e franchezza».

II suo arciprete, chiedendo un parere alla Curia su una questione che riguardava il parroco di Savogno scriveva: «Spero di vedermi esaudito e desidererei che il decreto fosse esplicito e non lasci luogo a sotterfugi, perché conosco per esperienza che don Luigi nelle sue intraprese quando le vede buone in se stesse non fa gran calcolo delle circostanze né dei mezzi necessari per condurle a fine e quando si è fisso in capo un’idea difficilmente si piega a mutarla». Davvero non era il tipo che badava ai sacrifici e alle difficoltà dei mezzi quando era convinto che la Provvidenza lo guidava.

Cosi si trovò salesiano con don Bosco: anni grandi, quelli, per la congregazione salesiana e una esperienza indimenticabile e fondamentale per don Guanella.