13 Novembre

1912 – 100 anni fa

Nasce il sacerdote Guanelliano DON VINCENZO SACCO, napoletano.
Nato a Napoli, il 13 novembre 1912
Entrato a Ferentino (FR), il 2 febbraio 1924
Professo a Fara Novarese (NO), il 12 settembre 1930
Sacerdote a Lugano (Svizzera), il 22 maggio 1937
Defunto a Napoli, il 9 agosto 1979

(dai PROFILI BIOGRAFICI, a cura di don Leo Brazzoli)

C'era a Roma, sulla via Nomentana, un istituto con tanti ragazzi, dai piccolissimi fino a quelli della quinta elementare. Erano tutti poveri e pochissimi potevano guardare, dietro alle spalle, ad una famiglia o far riferimento ad una casa propria. Li seguiva, con cure materne, un gruppo di buone suore, che non trascuravano la formazione morale. Se qualcuno rispondeva meglio nella preghiera, se lo trovavano docile, studioso, se vi scorgevano un qualche segno di vocazione, lo presentavano ai sacerdoti di don Guanella, che ogni tanto vi facevano una comparsa. E il ragazzo prendeva allora la via del seminario.
Fra i vari, ci fu anche Vincenzo Sacco che, finite le elementari, andò a Ferentino.
Nel vecchio convento francescano, affacciato sulla via Casilina, trasformato nella Casa della Divina Provvidenza, convivevano, sotto le ali della carità, grandi e piccoli, sani e handicappati. Si parlava anche di «piccolo seminario», ma che seminario non era, piuttosto centro di raccolta di ragazzi da preparare e da selezionare per il seminario.
Vincenzo non vi stette molto, giusto il tempo per frequentarvi il primo anno della media inferiore e poi passare a Fara.
Fu certo un salto brusco e duro: non era solo questione di distanze, si trattava di mutare il caldo del Sud, con le brume del Novarese, dove la nebbia stanzia sovrana per lunghi mesi, penetrando nelle ossa, e di adattarsi ad abitudini di vita di tutt'altra specie. Ma il seminario era l'unico e vi confluivano ragazzi d'ogni parte d'Italia, da accomunare nei metodi e nel trattamento. Bisogna dire che erano tempi nei quali non s'andava troppo per il sottile e nei quali era tenuto in molto conto lo spirito di sacrificio.
Come in genere tutti quelli che provenivano dal meridione, Vincenzo dovette soffrire un po', soprattutto per il freddo che nel crudo inverno gonfiava le mani gelate, le screpolava, le piagava: ma al disagio lui c'era abituato, perché aveva conosciuto l'orfanezza, la povertà e aveva visto chiudersi la casa dietro a sé e ai fratellini minori.
Passarono gli anni del ginnasio, vennero i due del noviziato. Fece la professione e andò a terminare il liceo a Milano, al S. Gaetano, cominciando contemporaneamente il suo tirocinio di educatore. Poi passò a Como, dove gli affidarono gli artigiani e dove iniziò lo studio della teologia al seminario diocesano.
Nel suo animo cantava sempre l'armonia della sua Napoli, perché è vero che si portano sempre le radici della terra nativa e se ne assorbe l'influsso. La musica l'aveva nel sangue. E imparò a destreggiarsi sugli strumenti, anche quelli della banda, che alla Provvidenza aveva ancora vita buona, e divenne l'organista abituale del Santuario, un organista di tutto rispetto. Amò sempre, finché visse, condecorare cerimonie e feste con la sua arte.
Motivi vari convinsero i superiori ad interrompergli il corso della teologia nel seminario di Como ed inviarlo, a completarlo in Svizzera, prima a Pollegio e poi a Riva S. Vitale. Era qui di casa, quando ricevette l'Ordinazione sacerdotale.
Sempre in Svizzera, pur mutando casa, restò anche dopo, fino al 1942, col doppio incarico d'insegnare sia nelle scuole agli alunni sia ai chierici assistenti.
Il rientro in Italia — nella Pia Casa S. Giuseppe di Gozzano — continuò a tenerlo tra i banchi della scuola, per la quale si era procurato un diploma di abilitazione magistrale. Libero alla festa, poteva consacrarla al servizio delle varie parrocchie, dispensatore della Parola e della grazia di Dio.
La guerra era in pieno svolgimento, molta la prudenza richiesta, soprattutto dove si radunavano i partigiani. Forse l'averne usata un po' meno, portò un disorientamento nella vita di don Vincenzo: il giovane fratello Vittorio, combattente in una formazione partigiana, col quale aveva avuto ripetuti incontri, poi catturato, venne fucilato dai nazifascisti; lui riparò all'estero, raggiungendo la casa di Riva S. Vitale. Fu nel 1944.
Cessato il conflitto, libero ormai di ritornare, nel 1945, ripassò il confine, e fu in Italia, ma con una nuova destinazione.
La Congregazione aveva aggiunto a Roma un'altra attività a quelle già in atto. Accogliendo l'invito delle autorità, aveva aperto, nel quartiere di Monte Sacro, un istituto per ragazzi orfani, sbandati, disorientati dalla guerra.
Don Vincenzo assunse l'insegnamento nelle classi elementari e contemporaneamente l'incarico di direttore di quelle d'avviamento, portandolo avanti per sette anni, fino al 1952. Da allora, vi fu superiore ed economo. Dovette destreggiarsi fra grosse difficoltà, che riflettevano e s'agganciavano ad altre del ricovero di via Aurelia Antica: erano soprattutto di carattere economico, legate purtroppo ad errori e a colpe tuttavia non sue.
La lunga permanenza si protrasse fino al 1961, quando l'istituto, potendo disporre d'una nuova sede, si trasferì in via della Bufalotta. Don Vincenzo ebbe all'Istituto Sereni di Perugia‑Montebello l'assistenza degli handicappati, lavorando al loro recupero e affiancando come primo consigliere il superiore della casa.
Desiderò tornare ad interessarsi di ragazzi normodotati e manifestò la sua opzione ai superiori che l'accontentarono, assegnandogli la direzione della casa di Naro, in Sicilia. Vi scese nel 1968 e si pose d'impegno: aveva allacciato utili conoscenze e qualche buona amicizia, giovevoli alla casa, stava approntando progetti, ma giunse improvvisamente una paralisi agli arti inferiori. Le cure premurose praticate non fecero che ridargli la possibilità di lasciare il letto, non lo guarirono.
Fu facile convincerlo che occorreva almeno un periodo di riposo, che si prospettava lungo: lasciò il posto e la Sicilia, per una convalescenza, che volle fare a Perugia, tornandovi nel 1970. Passarono due anni, la situazione era stazionaria, doveva considerarsi semi‑infermo. Se ne convinse e desiderò tornare alla sua Napoli, ora che la Congregazione vi aveva un'attività propria, nella Fondazione Elisa Fernandes. Con la condiscendenza, che è legge nei riguardi degli infermi a chi è al governo, vi fu inviato a vivervi gli ultimi sette anni della sua vita. Anni d'attesa, santificati dal cruccio dell'inazione, con la disponibilità al poco, pur prezioso, ministero possibile.
Finché venne il Signore a chiamarlo. S'era fatto voler bene anche da quanti erano soliti frequentare la casa e la chiesa annessa, e i membri d'una confraternita locale, che disponeva al cimitero d'una chiesetta propria, ne vollero la salma a riposare sotto il pavimento.
Le zolle benedette accolsero e ricoprirono il mistico granello di frumento, già frantumato dalla sofferenza, perché germogliasse come ricca spiga nell'opera napoletana, da anni desiderata, attesa ed ora lanciata nelle vie della carità.