25 Domenica del Tempo Ordinario  anno BVangelo della Domenica

25ª Domenica del Tempo Ordinario – anno B
23 Settembre 2012

 

La pazienza di correggere per amore

Gesù si ripete. Si siede e parla della sua fine, della via verso la vita: la Croce.
La grandezza di una persona non sta nelle uscite nuove, nelle trovate esoteriche, ma in ciò che umilmente, coerentemente, convintamente ripete.
Il suo insegnamento era stato accolto così male da arrivare a chiamare ‘Satana’ l’amico Pietro; così è necessario un supplemento di scuola e si mette in cammino con i suoi attraversando clandestinamente regioni solitarie non solo per evitare inutile pubblicità, ma soprattutto per dedicarsi all’istruzione dei suoi.
La pazienza di tornare a insegnare sui punti cruciali; ci sono cose che non entrano nel cuore dell’uomo perché resistenze più forti fanno muro. E Cristo che fa? Ripete, ripete, ripete. C’è un’insistenza che non è petulanza, ma esprime amore.
La reazione dei discepoli è sintomatica: il silenzio. Gesù conosce bene il cuore dell’uomo e sa che le resistenze mute, quelle che fanno fatica ad esprimersi, sono le più profonde e possiedono la persona dalla radice. Allora? Allora si va alla radice.

L’origine di tutto. Il buco nero del cuore dell’uomo

La storia è quella antica, quella di sempre. Ha dato origine alla vicenda umana ed è lo snodo della nostra chiusura al Vangelo, alla Croce, alla missione che ci è affidata: la paura. Dice Marco: “avevano paura di interrogarlo”.
Che strano! Solitamente chi non capisce chiede. Qui i discepoli tacciono. Hanno assistito alla pessima esposizione di Pietro e siccome nutrono lo stesso suo pensare, temono un altro scontro col maestro. Silenzio dell’imbarazzo e della.
Questo è il Vangelo, qui c’è la bella notizia: di Gesù che entra nella nostra paura, a snidare il male antico. Libro della Genesi, capitolo tre: lì c’è tutto il segreto della paura. Nel cuore dell’uomo il Nemico semina un dubbio: “Non vedi che sei il secondo? Tu non sei il numero uno del creato… Anzi non sei nulla, perché Dio ti mette da parte; c’è un albero che non puoi toccare…”.
Eccolo il terrore antico: la paura essere secondi, con la conseguenza di essere scartati e messi da parte e quindi il rischio tragico di ‘non essere’. E da allora un unico antidoto a questo vuoto: lo sforzo di essere qualcuno, di essere primi, di non essere appartati, di essere i più grandi. E di qui tutte le paure e tutti i dolori dell’avventura umana.
Ha ragione il libro del Qohelet quando amaramente, me realmente dice: “Tutte le opere dell’uomo sulla terra non sono altro che invidia, competizione”. Questo ha fatto il Nemico all’origine, seminare nel cuore dell’uomo il sospetto verso tutti, Dio compreso, ingaggiando una gara che diventa la nostra seconda pelle e ci riduce a vedere antagonisti ovunque. Genitori, amici, coniuge, figli, superiori, colleghi… tutti declassati a potenziali nemici, da tenere a bada perché non ti freghino.
E tu ti salvi solo se ‘ti metti in salvo’ cercando un posto, un ruolo, un grado che ti eviti il rischio terribile di essere messo in disparte. Il rango, il nome, una carica.

La scuola di Gesù

Si siede, li richiama a sé -bellissimo! Non è bastato il primo chiamarli…- e riprende la lezione. Tema unico: “Cosa vi faceva litigare lungo la via?”. Cosa vi fa litigare nella vita? Cosa vi mette in gara? Il primeggiare e la voglia di primeggiare.
E perché? Cosa nasconde questa voglia? Nasconde una paura: non essere considerati, essere messi in disparte.
E vi sembra la vera tragedia?
C’è un solo pericolo da evitare, il fallimento vero del cammino umano, ed è la tragedia di non amare. Ora è impossibile amare senza essere messi in disparte. Nessuno può amare senza vincere questa paura antica di essere secondi, cioè ultimi.

            Volete la prova?
Quando tu ti senti veramente amato da un altro? Quando l’altro è capace di rischiare la vita per te. Se l’altro la vita per te non la molla tu sentirai forse di essere amato? Macchè… Sei un pezzettino della sua gloria, il piedistallo del suo ego, esisti ‘in funzione’ del suo finto star bene! Come fai a sentirti amato da uno che fa del suo realizzarsi la misura del mondo? Non ti ama, gli servi anche tu, col resto…
Non da vita questo delirante desiderio di essere grandi, grandi, grandi. I primi. Vedete questo ragazzino? Lui è aperto a tutto, può diventare tutto, voi siete già chiusi, siete già morti. C’è una necrosi in atto. Lui è il servetto della casa, perché tutti stiano bene, perché non manchi nulla a nessuno: questo è il mondo come lo vuole Dio, questo è l’uomo come Dio lo ha pensato. Altro che vile, sfruttato… l’unico felice!
La scuola di Gesù non sarà capita. Marco dice amaramente: “Essi non capivano quella parola”. Perché la capiscano dovrà dare l’esempio di essere Lui l’ultimo, messo da parte, disprezzato, persino ucciso. Perché capiscano che la vera tragedia non è l’accantonamento e l’annientamento, neppure quello della morte; la tragedia più irreparabile è essere incapaci di amare, essere incapaci di dare all’altro quel posto che un cuore che ama sa dare. Ma anche lì non capiranno. Non subito, non senza dolore.

La morte vera

Sì -aveva detto prima il maestro- cattureranno il Figlio dell’uomo, crederanno di averlo in pugno, lo uccideranno anche. Sì, morirà…ma dopo che l’avranno ucciso?
Pochi passi del Vangelo raggiungono la bellezza di questa ripetizione: “lo uccideranno, ma dopo averlo ucciso…”. Il dialetto romanesco e quello napoletano hanno un’espressione tipica: “embè?”. Come a dire: e con ciò? A che gli serve? Risorgerà dopo tre giorni! Anche la beffa dei tre giorni, cioè un tempo breve, per dire che uccide è un fallito, spera di ottenere l’effetto cercato, ma è irriso e ridicolo.
La morte vera non è la morte. La morte vera è l’incapacità di dare la vita per chi si dice di amare; la morte vera è continuare a sfruttare gli altri -amici, coniuge, figli- per dare da mangiare al proprio desiderio di primeggiare, di stare a galla. E cioè alla paura antica di essere secondi, poco importanti, appartati, dimenticati.
Vuoi la una vita che muore e risorge o vuoi la morte senza scampo?

padre Fabio, guanelliano